Alcuni storici identificano Verbicaro con l'Aprustum dei Bruzi o con Vergae. Il nome del paese è di origine incerta per le varianti etimologiche; da Vernicaio, così denominato per la chiarezza dell'aria, " a vernante aere dictum" (secondo Gabriele Barrio, monaco e scrittore, che nel 1571 scrisse: "De antiquitate et situ Calabriae), a Bernicaro e Berbicaro, in dialetto Vruvicaru, che potrebbe significare etimologicamente luogo di pastori, dal latino "berbicarius", pecoraio o per la derivazione etimologica dal latino vervex, pecora.
La denominazione di Verbicaro, quindi, potrebbe essere derivata, con fondatezza di ragione, secondo l'ipotesi etimologica, dai luoghi, dove il borgo sorse, brulli, impervi e selvosi, abitati e frequentati da pastori.
Il centro storico, ormai parzialmente disabitato costituisce per la sua configurazione caratteristica, topografica ed urbanistica, il primo e più significativo documento storico relativamente all'origine ed alla ragione stessa del paese, in difetto di particolari fonti di notizie.
In rapporto alla sua configurazione topografica ne deriva che Verbicaro sia sorto come "castello" che si estendeva dal palazzo antico baronale sino a Bonifanti.
L'antico palazzo baronale conserva ancora il nome di Castello.
Si vedono ancora le strutture di un paese rifugio: mura di difesa con tre porte d'accesso all'abitato.
Le case sono tutte di un solo vano, una addossata all'altra edificate a difesa e protezione. Si può ritenere che il primo nucleo abitato sia sorto in funzione difensiva, quando in epoca medievale, le popolazioni rivierasche, per scampare alla malaria ed alla violenza delle incursioni piratesche e dei Saraceni, durante il periodo bizantino, erano costrette a ritirarsi nel retroterra, in luoghi alti ed impervi, più sicuri e più adatti alla difesa.
Il borgo, ristretto alle origini tra i naturali contrafforti rocciosi ed i muraglioni protettivi di cinta, cominciò gradualmente ad espandersi con il crescere della popolazione diramandosi in agglomerati rionali di case nella campagna circostante.
Il paese si sviluppò da questo nucleo fino a raggiungere le dimensioni attuali.
Nel 1807 i francesi, ne facevano una sede del cosiddetto "Governo" di cui facevano parte vari paesi, definiti come "Università" tra cui ritroviamo Grisolia, Maierà, Orsomarso, Abatemarco, Cipollina. Nel 1811 col decreto istitutivo dei comuni e dei circondari, viene aggiunto nel circondario di Verbicaro, il comune di Orsomarso. Con l'unità d'Italia divenne comune autonomo e capoluogo di mandamento.
Vi sono oltre a valide tracce dell'arte romanica, bizantina, gotica e normanna, anche quelle di tipo classico-rinascimentale di cui esemplari ne sono alcuni portali in pietra scolpita, ad arco saldato con al centro lo stemma di famiglia. Dal punto di vista architettonico non vi sono soltanto strutture difensive, ma insieme a queste abbiamo vari elementi di un'architettura, che narra con vari elementi come questo centro abbia vissuto i tempi della storia, attraverso un adeguamento artistico e culturale di volta in volta diverso.
L'episodio più noto e studiato della storia di Verbicaro è l'epidemia di colera dell'estate del 1911 e la rivolta che causò. Molto spesso il fatto viene strumentalizzato per sottolineare l'arretratezza del paese agli inizi del Novecento, senza considerare che in quegli anni a vivere in condizioni di emarginazione non era solo Verbicaro ma tutta l'Italia meridionale, con gravi responsabilità del governo nazionale.
Ai verbicaresi erano tristemente note le conseguenze di un'epidemia, poichè già in passato il paese era stato colpito da simili calamità.
La prima di cui si ha notizia risale al 1656, quando per il contagio che colpì il Regno di Napoli morirono a Verbicaro 1036 persone, l'altra nel 1844 che registrò 246 morti.
Il colera, implacabile, si abbattè ancora su Verbicaro nel 1855 e fu ancora più drammatico non solo per l'elevato numero di vittime, ma, soprattutto per la rivolta che questo causò, di gran lunga più cruenta e con lo stesso meccanismo di quella del 1911.
Nel 1911, quando in Italia si celebravano i primi cinquant'anni di unità nazionale, si salutava questo avvenimento con grandi manifestazioni e cerimonie, da Verbicaro, da questo piccolo e sperduto paese della Calabria, del tutto sconosciuto alla gran parte degli italiani, cominciarono a giungere notizie inquietanti. L'epidemia di colera, che nell'estate del 1911 aveva toccato altre regioni italiane, ebbe a Verbicaro, per le precarie condizioni igieniche e sanitarie, effetti devastanti. Provocò la violenta reazione della popolazione di Verbicaro che insorse contro le autorità locali, i "galantuomini" del paese, considerati responsabili dell'epidemia, giudicati alla stregua di "untori".
Il popolo, terrorizzato dall'epidemia, e dovendo nella sua ignoranza, spiegare quella tragedia, giustificava il colera con la "polverella": un veleno messo dalle autorità locali nelle fontana pubblica per uccidere gli abitanti. La causa dell'epidemia era la mancanza di igiene. L'acqua della "fontana vecchia", l'unica fontana pubblica, la cui sorgente era nel sottosuolo, era inquinata dagli stessi cittadini, che di notte soddisfacevano i loro bisogni per le vie.
Nel tumulto furono uccise tre persone, ritenute responsabili dell'avvelenamento.
Verbicaro, diventa, in quell'estate del 1911, quasi un monito per la coscienza di un paese e di uno Stato che sembrava aver dimenticato antichi e non risolti problemi sociali.
L'episodio distruttivo e desolante del 1855, che si ripetè con inalterata intensità nel 1911, segnò i cittadini con il marchio infamante della ferocia e della criminalità.
In realtà erano solo dei poveri contadini abbandonati a sè, abituati a sopportare i soprusi dei "galantuomini" e che avevano una sola fede in cui credere e sperare: la famiglia. E quando un'epidemia senza scampo li privò degli affetti più cari, improvvisamente e senza nessuno capace di dare spiegazioni plausibili a ciò che stava accadendo, impazzirono di dolore, divenendo collettività incontrollabile, feroce e devastante. Furono, dunque, l'eccesso di dolore e l'ignoranza a causare le rivolte.
Sono storie cariche di sofferenze e meritano tutto il nostro rispetto; e se non un minimo di comprensione, neanche un giudizio frettoloso o distratto.
Sono avvenimenti spiacevoli ma, anch'essi, purtroppo, ci appartengono, sono parte integrante della nostra vita, da non dimenticare.
Il palazzo marchesale fu costruito nella seconda metà del '700, in aderenza all'ala di accesso al vecchio castello, dove probabilmente alloggiavano i precedenti feudatari durante la loro permanenza in paese. Di scarso valore architettonico, abbastanza modesto in confronto ad alcuni fastosi palazzi gentilizi, costruiti altrove da altri feudatari, è stato sede per lungo tempo della caserma dei carabinieri. Una scritta dipinta sotto il cornicione: "Nicollaus Cavalcanti, de marchionibus terrae Verbicarii, sibi suisque fecit " ci ricorda che fu costruito da Nicola Cavalcanti, marchese di Verbicaro.